Spalancò gli occhi, la gola riarsa e la lingua inaridita, annaspava alla ricerca del prezioso ossigeno. Il soffitto macchiato lo guardava affogare nel lenzuolo ingiallito, brancolava tra sudore e affanno cercando un appiglio, un punto fermo che gli certificasse l‘autenticità del momento.
Girava tutto, lo stomaco sottosopra, confusione
totale, batteva i denti nervosamente nonostante il gran caldo, pelle d’oca e
spasmi muscolari. Tremava. Chissà come sgusciò fuori dall’impastata prigione di
cotone e si ritrovò a gattonare sul pavimento ciliegio scuro. Ricordava
perfettamente il giorno in cui lui e Gaia avevano scelto quella tonalità per
pavimentare la camera da letto. Serbava gelosamente ogni dettaglio nella memoria:
braccialetti verdi in tinta con le scarpe, la borsa di cuoio e l’elastico nero
per formare la coda. Ricordava il nome del commesso che li assistette, Paolo,
con i suoi capelli rossicci e le lentiggini, la camicia a righe bianche e blu
con il cartellino affisso sul taschino. Poi c’era..
Scosse la testa
nervosamente, per quanto impeccabilmente lo rimembrasse quel tempo era andato,
perso, passato, svanito da tutte le banche dati dell’universo tranne che,
ovviamente, da quella dei suoi ricordi.
Quando riaprì gli
occhi lo sguardo cadde sul crespo dei capelli di Tullio. Sospirò rinfrancato e
sorrise finalmente sereno, dio solo sa quanto ne avesse bisogno.
Era steso supino
sul pavimento, poggiava a terra con i gomiti e la guancia destra, il sorriso
pietrificato sul volto, un filo trasparente connetteva le labbra con la pozza
di saliva formatasi sulle assi di legno. Deglutì amaramente, tirò su col naso.
“ Sono patetico, vero? ” Chiese. Non ebbe il coraggio di voltarsi a veder la
reazione di Tullio.
Si sentiva come di
cristallo, destinato ad andare in frantumi alla minima variazione di frequenza,
impietrito in quello stato d’essere, in quella forma e in quella posizione. Sol
in attesa che la prima piccola ed infinitesimale crepa fosse comparsa sul suo corpo lucido e
prismatico, per poi espandersi in una rete scricchiolante sino all’ultima delle
sue sinapsi ed andare finalmente in pezzi. Miliardi di scintille vitree in un
esplosione paragonabile a quella d’un fuoco d’artificio. Quasi non vedeva l’ora
che ciò avvenisse, più e più volte vedeva la scena ripetersi nella sua testa,
osservandola minuziosamente come fosse seduto nella platea del metafisico
teatro del suo inconscio. Tuttavia sapeva che, per quanto lo stesse aspettando,
quel tempo ancora non era giunto, e la sua smania di arrivarci era la prova di
tutto questo. C’era effettivamente qualcosa
a tenerlo unito ed integro, qualcosa che doveva fare, che doveva aspettare
prima di potersi finalmente abbandonare. Non sapeva bene di cosa effettivamente
si trattasse però un’idea se l’era fatta, doveva avere a che fare con..
S’alzò di colpo,
non aveva tempo per perdersi nei suoi cogiti, aveva del lavoro da compiere,
fortuna che Tullio glielo ricordò con uno sguardo penetrante come un
giavellotto. Uscì di fretta. Quasi non guardò Gaia seduta come al solito al
tavolo della cucina.
“E’ opportuno che viaggiatore tenga a mente che tutto ciò avrà modo di osservare lungo il suo cammino è già presente dentro di se al momento della partenza.”
“..Che cosa?!”
“Ho detto che fanno
sette e cinquanta l’ora.. ” Disse l’addetto all’affitto delle barche sbriciando
dall’alto dei suoi occhiali a mezzaluna.
Era una bellissima
giornata. Il sole gli invispiva dolcemente la pelle. Inspirava aria frizzante
ad ogni vogata beandosi di come faceva scivolar la barchetta sul lago
cristallino. Il sorriso di Gaia seduta a poppa lo rallegrava e gli infondeva il
vigore necessario per continuare a navigare. Giunti sufficientemente al largo
si tuffarono, l’acqua fresca lo rimise a nuovo. Giocarono a schizzarsi come due
bambini e risalirono a bordo quando le dita erano ormai grinzose e segnate.
Navigarono ancora in quell’incantato specchio d’acqua liberi e spensierati come
una foglia in balia del vento. Giunti alla riva si stesero e s’affidarono alle
amorevoli cure del sole cocente che li asciugò e li scottò come due cotolette
su una padella.
Era tutto così
perfettamente unico e fantastico. Ogni bacio che si scambiavano era una
dirompente esplosione d’affetto, ogni volta che si perdevano nei loro occhi
visitavano un pianeta diverso, ogni volta che s’abbracciavano accendevano una
nuova fiamma ardente di passione. Lo adorava. Avrebbe dato la vita perché il
sole non tramontasse e quella giornata non avesse avuto mai fine. Il fruscio
emesso dalla sua mano che s’avvolgeva nel giallo dei capelli di Gaia lo mandava
in visibilio, socchiudendo le palpebre evocava in lui quelle che credeva essere
le sensazioni d’un esploratore che solcasse per la prima volta un terreno
ancora sconosciuto. Nonostante già conoscesse ogni centimetro del corpo di
quella donna ogni volta era come la prima, ogni tocco aggraziato era come il
primo passo di un’astronauta sulla luna. Disimparava sistematicamente tutto
quel che già sapeva per poi ricordarlo nell’attimo seguente in un vorticoso déjà
vu.
Ogni volta che ciò
accadeva una densa colata di gioia lo riempiva dalla punta dei capelli fino a
quella dei piedi. Ed era mortalmente sicuro che anche Gaia provava le stesse
identiche emozioni.
Nonostante la baia
fosse occupata anche da altre persone loro si sentivano soli. Avvolti tra le
soavi spire d’un incantesimo ancestrale. Anche fossero stati nella piazza
principale d’una metropoli frenetica e pulsante all’ora di punta si sarebbero
sentiti ugualmente gli unici due cuori pulsanti dell’universo. I loro spiriti
erano oramai indissolubilmente allacciati l’un l’altro con il più impenetrabile
dei nodi marinareschi. Non gli importava di nulla se non dell’altro.
Il tempo passò
vorace ed accelerato finchè il sole si andò a perdere oltre l’orizzonte, dando
il suo benestare perché una fresca oscurità calasse accompagnata da un esercito
di menestrelli composto da grilli e cicale. Mano nella mano i due innamorati s’alzarono
e si spostarono sotto ad un albero dal tronco massiccio. Senza neppure
mangiare, come se il loro legame fosse così vigoroso da sostentarli anche dal
punto di vista metabolico, fecero l’amore, appassionatamente e ripetutamente
sotto lo sguardo complice ed anche un poco sornione della luna argentata. Le
loro essenze si mischiarono come colori su una tavolozza, erano nella simbiosi
più totale, bastava uno sguardo per comprendersi appieno, per soddisfare
qualsivoglia esigenza dell’altro e persino per allineare i coiti.
Infine venne un
riposato silenzio. Lo sguardo a vagare tra le stelle come un satellite
abbandonato. I corpi sudati e nudi riversi l’uno sull’altro, in una stasi
piacevolmente affannata. La folta chioma bionda di Gaia ad avvolgerlo come un
soffice velo. Erano il fulcro vibrante di un globo di rilassatezza pacata e
sfinita. Fu allora che schiuse le labbra con un impercettibile schiocco.
Osservò la sua amata con uno sguardo ammaliato.
“ Gaia.. Sono
contento che le nostre esistenze su questa terra condividano lo stesso
intervallo temporale.. ”
Lei sorrise, lo
potè avvertire chiaramente sentendo la contrazione della guancia poggiata sul
suo petto. Mosse il capo, gli baciò il derma sul quale era posata ed infine si
volse così da poter ricambiare il suo sguardo. “ Anche io, mio amore.. Come
sei.. ” A quel punto Gaia disse qualcosa di terribile, una frase orripilante
che strideva brutalmente col momento che stavano vivendo e che gli fece accapponare
la pelle. Avrebbe dovuto sentirsi indignato, inorridito e quant’altro. Ma non
lo fu. La sua attenzione fugace venne rapita da un movimento tra le fronde dell’albero
ai piedi del quale erano stesi. Nonostante l’oscurità notturna fu chiaramente
in grado di scorgerlo. C’era Tullio a dondolarsi tra i rami come una scimmia,
aveva un sguardo divertito come quello di un bambino, anche se indossava gli immancabili
occhiali da sole riuscì ad accorgersene senza problemi. “No..” Disse esternando
quel che provava. Come poteva esserci anche lui? Era stata una giornata amena e
senza eguali, forse addirittura la più fantastica della sua vita sino a quel
punto, come mai era comparso Tullio?
“ No? E invece si!
Se mi amavi così tanto come hai potuto farmi questo? Maledetto pazzo! Io che t’ho
fatto dono del mio amore.. E tu è così che mi ricambi? ” Gaia prese prepotentemente
possesso della sua attenzione, fu costretto a dimenticare l’albero e a portare
il suo sguardo su di lei. Lo scenario era cambiato così come la ragazza che lo
sovrastava. I ciuffi d’erba verdi ed avvolgenti avevano lasciato il posto a
mattonelle fredde e sporche, una superfice dura e sgradevolmente impastata. Era
una stanza piccola e brutta, un luogo squallido e per nulla confortevole.
Deglutì amaramente osservando quel che Gaia era divenuta. Al posto delle sue
gambe lisce e slanciate ora c’era una masnada di tentacoli lividi, tozzi ed oleosi.
La sua pelle liscia e chiara era adesso una scorza cancerosa e butterata, in
punta a quelle che nessuno ormai avrebbe osato definire braccia c’era un
sistema di artigli chitinosi che muoveva spasmodicamente producendo schiocchi e
strepitii mostruosi. Sul petto la ferita da coltello che campeggiava in mezzo
ai seni era putrida ed infetta, da essa si espandeva a raggera su tutto quel
corpo terribile un fascio di protuberanze viola madide e bubboniche. I suoi
lisci capelli dorati ora erano una massa informe di paglia rinsecchita e stoppacciosa,
il suo incantevole viso da bambolina era deformato da una prominente mandibola
ricca di denti aguzzi come montagne, gli occhi scavati, infossati ed arrossati
dall’odio, la pupilla trasversale ed orribile come quella di un rettile. E
sbavava. Continuamente colate di saliva giallastra e densa gli precipitavano
sul petto provocandogli un bruciore pungente.
Guardò inorridito
quella creatura – non aveva più il coraggio di ammettere che si trattasse della
stessa incantevole ragazza che rispondeva al nome di Gaia – ruggire e
gracchiare mentre lo avviluppava sempre di più con quei suoi schifosi
tentacoli. Ogni ventosa nascondeva un lungo aculeo urticante che gli s’insinuava
tra le carni facendolo strillare di dolore. La morsa si faceva via via più
serrata ed aderente, cercava con tutte le sue forze di sfuggirgli ma era uno
sforzo oltremodo vano. Il mostro l’aveva preso. Non riusciva a ribellarsi o a
farlo ragionare. A nulla valsero le parole spese nel cercar di riportar la sua
amata alla ragione, a nulla valsero le preghiere e gli scongiuri. Il mostro era
sempre più famelico ed arrabbiato, ruggiva e salivava come un ossesso mentre
mulinava i viscidi artigli alla ricerca del volto della sua preda. Lo raggiunse
e gli portò via l’occhio sinistro infilzandolo con la punta dell’unghia come un
oliva da martini. Urlò di dolore, piangendo e chiedendo perdono in un patetico
e bofonchiato lamento sommesso. Ancora una volta gli artigli vennero tirati
indietro pronti ad abbattersi su di lui per l’ultima e decisiva volta. La
grande mano ossuta del mostro stava per calare sul suo volto come il sipario su
d’un palco. Cercò ancora una volta di dimenarsi e di sgusciare via ed ancora
una volta fallì, riuscì solo a volgersi a sinistra poi a destra e poi ancora a
sinistra non concludendo di fatto nulla se non il riuscire ad intravedere
ancora Tullio che, all’angolo della stanza, lo guardava contento protendendo
verso di lui il pugno chiuso con il pollice sollevato. Ma cosa? Lui stava
morendo e Tullio gli faceva OK? Ma che cosa..?
Non ci fu tempo per
altro, le unghie l’ebbero. Il momento del contatto fu estremamente rallentato,
assaporò ogni istante di quello spregevole ultimo contatto fisico. La robusta
chitina ruppe il suo volto in tre punti come una nave rompighiaccio all’esplorazione
dei poli. Dolore terribile, angoscia, pianto, buio e silenzio..
“Gaia!”
Strillò
sollevandosi dalla pozza di sudore e lacrime cui era ridotto il suo giaciglio.
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