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martedì 5 febbraio 2013

Tullio. Parte Seconda



Spalancò gli occhi, la gola riarsa e la lingua inaridita, annaspava alla ricerca del prezioso ossigeno. Il soffitto macchiato lo guardava affogare nel lenzuolo ingiallito, brancolava tra sudore e affanno cercando un appiglio, un punto fermo che gli certificasse l‘autenticità del momento.
Girava tutto, lo stomaco sottosopra, confusione totale, batteva i denti nervosamente nonostante il gran caldo, pelle d’oca e spasmi muscolari. Tremava. Chissà come sgusciò fuori dall’impastata prigione di cotone e si ritrovò a gattonare sul pavimento ciliegio scuro. Ricordava perfettamente il giorno in cui lui e Gaia avevano scelto quella tonalità per pavimentare la camera da letto. Serbava gelosamente ogni dettaglio nella memoria: braccialetti verdi in tinta con le scarpe, la borsa di cuoio e l’elastico nero per formare la coda. Ricordava il nome del commesso che li assistette, Paolo, con i suoi capelli rossicci e le lentiggini, la camicia a righe bianche e blu con il cartellino affisso sul taschino. Poi c’era..
Scosse la testa nervosamente, per quanto impeccabilmente lo rimembrasse quel tempo era andato, perso, passato, svanito da tutte le banche dati dell’universo tranne che, ovviamente, da quella dei suoi ricordi.
Quando riaprì gli occhi lo sguardo cadde sul crespo dei capelli di Tullio. Sospirò rinfrancato e sorrise finalmente sereno, dio solo sa quanto ne avesse bisogno.
Era steso supino sul pavimento, poggiava a terra con i gomiti e la guancia destra, il sorriso pietrificato sul volto, un filo trasparente connetteva le labbra con la pozza di saliva formatasi sulle assi di legno. Deglutì amaramente, tirò su col naso. “ Sono patetico, vero? ” Chiese. Non ebbe il coraggio di voltarsi a veder la reazione di Tullio.
Si sentiva come di cristallo, destinato ad andare in frantumi alla minima variazione di frequenza, impietrito in quello stato d’essere, in quella forma e in quella posizione. Sol in attesa che la prima piccola ed infinitesimale crepa  fosse comparsa sul suo corpo lucido e prismatico, per poi espandersi in una rete scricchiolante sino all’ultima delle sue sinapsi ed andare finalmente in pezzi. Miliardi di scintille vitree in un esplosione paragonabile a quella d’un fuoco d’artificio. Quasi non vedeva l’ora che ciò avvenisse, più e più volte vedeva la scena ripetersi nella sua testa, osservandola minuziosamente come fosse seduto nella platea del metafisico teatro del suo inconscio. Tuttavia sapeva che, per quanto lo stesse aspettando, quel tempo ancora non era giunto, e la sua smania di arrivarci era la prova di tutto questo. C’era effettivamente qualcosa a tenerlo unito ed integro, qualcosa che doveva fare, che doveva aspettare prima di potersi finalmente abbandonare. Non sapeva bene di cosa effettivamente si trattasse però un’idea se l’era fatta, doveva avere a che fare con..
S’alzò di colpo, non aveva tempo per perdersi nei suoi cogiti, aveva del lavoro da compiere, fortuna che Tullio glielo ricordò con uno sguardo penetrante come un giavellotto. Uscì di fretta. Quasi non guardò Gaia seduta come al solito al tavolo della cucina.

“E’ opportuno che viaggiatore tenga a mente che tutto ciò avrà modo di osservare lungo il suo cammino è già presente dentro di se al momento della partenza.”
“..Che cosa?!”
“Ho detto che fanno sette e cinquanta l’ora.. ” Disse l’addetto all’affitto delle barche sbriciando dall’alto dei suoi occhiali a mezzaluna.
Era una bellissima giornata. Il sole gli invispiva dolcemente la pelle. Inspirava aria frizzante ad ogni vogata beandosi di come faceva scivolar la barchetta sul lago cristallino. Il sorriso di Gaia seduta a poppa lo rallegrava e gli infondeva il vigore necessario per continuare a navigare. Giunti sufficientemente al largo si tuffarono, l’acqua fresca lo rimise a nuovo. Giocarono a schizzarsi come due bambini e risalirono a bordo quando le dita erano ormai grinzose e segnate. Navigarono ancora in quell’incantato specchio d’acqua liberi e spensierati come una foglia in balia del vento. Giunti alla riva si stesero e s’affidarono alle amorevoli cure del sole cocente che li asciugò e li scottò come due cotolette su una padella.
Era tutto così perfettamente unico e fantastico. Ogni bacio che si scambiavano era una dirompente esplosione d’affetto, ogni volta che si perdevano nei loro occhi visitavano un pianeta diverso, ogni volta che s’abbracciavano accendevano una nuova fiamma ardente di passione. Lo adorava. Avrebbe dato la vita perché il sole non tramontasse e quella giornata non avesse avuto mai fine. Il fruscio emesso dalla sua mano che s’avvolgeva nel giallo dei capelli di Gaia lo mandava in visibilio, socchiudendo le palpebre evocava in lui quelle che credeva essere le sensazioni d’un esploratore che solcasse per la prima volta un terreno ancora sconosciuto. Nonostante già conoscesse ogni centimetro del corpo di quella donna ogni volta era come la prima, ogni tocco aggraziato era come il primo passo di un’astronauta sulla luna. Disimparava sistematicamente tutto quel che già sapeva per poi ricordarlo nell’attimo seguente in un vorticoso déjà vu.
Ogni volta che ciò accadeva una densa colata di gioia lo riempiva dalla punta dei capelli fino a quella dei piedi. Ed era mortalmente sicuro che anche Gaia provava le stesse identiche emozioni.
Nonostante la baia fosse occupata anche da altre persone loro si sentivano soli. Avvolti tra le soavi spire d’un incantesimo ancestrale. Anche fossero stati nella piazza principale d’una metropoli frenetica e pulsante all’ora di punta si sarebbero sentiti ugualmente gli unici due cuori pulsanti dell’universo. I loro spiriti erano oramai indissolubilmente allacciati l’un l’altro con il più impenetrabile dei nodi marinareschi. Non gli importava di nulla se non dell’altro.
Il tempo passò vorace ed accelerato finchè il sole si andò a perdere oltre l’orizzonte, dando il suo benestare perché una fresca oscurità calasse accompagnata da un esercito di menestrelli composto da grilli e cicale. Mano nella mano i due innamorati s’alzarono e si spostarono sotto ad un albero dal tronco massiccio. Senza neppure mangiare, come se il loro legame fosse così vigoroso da sostentarli anche dal punto di vista metabolico, fecero l’amore, appassionatamente e ripetutamente sotto lo sguardo complice ed anche un poco sornione della luna argentata. Le loro essenze si mischiarono come colori su una tavolozza, erano nella simbiosi più totale, bastava uno sguardo per comprendersi appieno, per soddisfare qualsivoglia esigenza dell’altro e persino per allineare i coiti.
Infine venne un riposato silenzio. Lo sguardo a vagare tra le stelle come un satellite abbandonato. I corpi sudati e nudi riversi l’uno sull’altro, in una stasi piacevolmente affannata. La folta chioma bionda di Gaia ad avvolgerlo come un soffice velo. Erano il fulcro vibrante di un globo di rilassatezza pacata e sfinita. Fu allora che schiuse le labbra con un impercettibile schiocco. Osservò la sua amata con uno sguardo ammaliato.
“ Gaia.. Sono contento che le nostre esistenze su questa terra condividano lo stesso intervallo temporale.. ”
Lei sorrise, lo potè avvertire chiaramente sentendo la contrazione della guancia poggiata sul suo petto. Mosse il capo, gli baciò il derma sul quale era posata ed infine si volse così da poter ricambiare il suo sguardo. “ Anche io, mio amore.. Come sei.. ” A quel punto Gaia disse qualcosa di terribile, una frase orripilante che strideva brutalmente col momento che stavano vivendo e che gli fece accapponare la pelle. Avrebbe dovuto sentirsi indignato, inorridito e quant’altro. Ma non lo fu. La sua attenzione fugace venne rapita da un movimento tra le fronde dell’albero ai piedi del quale erano stesi. Nonostante l’oscurità notturna fu chiaramente in grado di scorgerlo. C’era Tullio a dondolarsi tra i rami come una scimmia, aveva un sguardo divertito come quello di un bambino, anche se indossava gli immancabili occhiali da sole riuscì ad accorgersene senza problemi. “No..” Disse esternando quel che provava. Come poteva esserci anche lui? Era stata una giornata amena e senza eguali, forse addirittura la più fantastica della sua vita sino a quel punto, come mai era comparso Tullio?
“ No? E invece si! Se mi amavi così tanto come hai potuto farmi questo? Maledetto pazzo! Io che t’ho fatto dono del mio amore.. E tu è così che mi ricambi? ” Gaia prese prepotentemente possesso della sua attenzione, fu costretto a dimenticare l’albero e a portare il suo sguardo su di lei. Lo scenario era cambiato così come la ragazza che lo sovrastava. I ciuffi d’erba verdi ed avvolgenti avevano lasciato il posto a mattonelle fredde e sporche, una superfice dura e sgradevolmente impastata. Era una stanza piccola e brutta, un luogo squallido e per nulla confortevole. Deglutì amaramente osservando quel che Gaia era divenuta. Al posto delle sue gambe lisce e slanciate ora c’era una masnada di tentacoli lividi, tozzi ed oleosi. La sua pelle liscia e chiara era adesso una scorza cancerosa e butterata, in punta a quelle che nessuno ormai avrebbe osato definire braccia c’era un sistema di artigli chitinosi che muoveva spasmodicamente producendo schiocchi e strepitii mostruosi. Sul petto la ferita da coltello che campeggiava in mezzo ai seni era putrida ed infetta, da essa si espandeva a raggera su tutto quel corpo terribile un fascio di protuberanze viola madide e bubboniche. I suoi lisci capelli dorati ora erano una massa informe di paglia rinsecchita e stoppacciosa, il suo incantevole viso da bambolina era deformato da una prominente mandibola ricca di denti aguzzi come montagne, gli occhi scavati, infossati ed arrossati dall’odio, la pupilla trasversale ed orribile come quella di un rettile. E sbavava. Continuamente colate di saliva giallastra e densa gli precipitavano sul petto provocandogli un bruciore pungente.
Guardò inorridito quella creatura – non aveva più il coraggio di ammettere che si trattasse della stessa incantevole ragazza che rispondeva al nome di Gaia – ruggire e gracchiare mentre lo avviluppava sempre di più con quei suoi schifosi tentacoli. Ogni ventosa nascondeva un lungo aculeo urticante che gli s’insinuava tra le carni facendolo strillare di dolore. La morsa si faceva via via più serrata ed aderente, cercava con tutte le sue forze di sfuggirgli ma era uno sforzo oltremodo vano. Il mostro l’aveva preso. Non riusciva a ribellarsi o a farlo ragionare. A nulla valsero le parole spese nel cercar di riportar la sua amata alla ragione, a nulla valsero le preghiere e gli scongiuri. Il mostro era sempre più famelico ed arrabbiato, ruggiva e salivava come un ossesso mentre mulinava i viscidi artigli alla ricerca del volto della sua preda. Lo raggiunse e gli portò via l’occhio sinistro infilzandolo con la punta dell’unghia come un oliva da martini. Urlò di dolore, piangendo e chiedendo perdono in un patetico e bofonchiato lamento sommesso. Ancora una volta gli artigli vennero tirati indietro pronti ad abbattersi su di lui per l’ultima e decisiva volta. La grande mano ossuta del mostro stava per calare sul suo volto come il sipario su d’un palco. Cercò ancora una volta di dimenarsi e di sgusciare via ed ancora una volta fallì, riuscì solo a volgersi a sinistra poi a destra e poi ancora a sinistra non concludendo di fatto nulla se non il riuscire ad intravedere ancora Tullio che, all’angolo della stanza, lo guardava contento protendendo verso di lui il pugno chiuso con il pollice sollevato. Ma cosa? Lui stava morendo e Tullio gli faceva OK? Ma che cosa..?
Non ci fu tempo per altro, le unghie l’ebbero. Il momento del contatto fu estremamente rallentato, assaporò ogni istante di quello spregevole ultimo contatto fisico. La robusta chitina ruppe il suo volto in tre punti come una nave rompighiaccio all’esplorazione dei poli. Dolore terribile, angoscia, pianto, buio e silenzio..

“Gaia!”
Strillò sollevandosi dalla pozza di sudore e lacrime cui era ridotto il suo giaciglio.

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