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Sezione Collabora: Christine Hope- parte due.
Doveva
stare lì al supermercato. Forse si sarà accorto che era tardi ed è
scappato via. Non lo avrò sentito salutarmi. Ma cosa cazzo sto dicendo!?
E il barista? Ok, ora vado al supermercato e risolvo ogni dubbio. Si
trovava a pochi isolati dalla stazione. Iniziò a venir giù goccioloni
freddi. Aumentai il passo. Ecco, qui vicino, vicino all' oculista. Poco
più avanti, dopo gli uffici degli immobili. No. Era prima, fra i due. Me
lo ricordo, mi dissi. Ora però c’era un salumiere. Chiuso. Non era
possibile, continuai a camminare. Forse mi sbagliavo, sì, doveva essere
così. Continuai e me ne dimenticai quasi del perché. Tornai indietro.
Niente: il supermercato era sparito dalla faccia della terra. Quella
paura senza senso aumentava. Stavo sudando. Ora iniziò a piovere come si
deve. Mi ritrovai di nuovo alla stazione. Mi misi al riparo e iniziai a
pensare, ma non sapevo a cosa. Volevo ricontrollare la rubrica; misi la
mano in tasca ma il cellulare non c’era più. Controllai tutte le
tasche. Assurdo! Ce l’avevo? Non so, proprio non riuscivo a ricordare. Clicca qui per la prima parte
Il cielo si era oscurato ancor di più, scavalcai i tornelli e andai a
prendere il treno. Dovevo andare a casa di Louis, mi doveva spiegazioni.
Mi rollai una sigaretta mentre aspettavo, ero davvero nervoso. Mi
sembrava di diventar matto. Cercai di restare calmo e per poco ci non ci
riuscì, ma l’ansia mi assaliva di continuo. Il rumore della pioggia mi
rilassava un poco, e l’aria fredda mi dava sollievo. Mi sbottonai il
giubbotto. Sentii il fischio che pronunciava la partenza del treno,
buttai via la sigaretta e mi lanciai all’interno. All’inferno.
Dentro ritrovai i miei pensieri, seduti dove li avevo lasciati insieme
ad una persona che mi dava le spalle. Louis! Mi fiondai verso di lui,
ero veramente incazzato e mi doveva delle spiegazioni il bastardo! Gli
arrivai di lato, lo guardai e lui mi guardò. Non era Louis.
- Mi scusi.
Dio mio! Cristo santo! Ma che avevo? Che stava succedendo? Mi misi a
sedere con la testa fra le mani. Mi veniva da piangere. Le immagini mi
si scioglievano davanti, colava il loro colore rimanendo bigie. Guardavo
fuori dal finestrino e non capivo cosa. Guardai lo squallore che mi
circondava. Era tutto così lurido; agli angoli si annidavano grumi neri,
per terra pozze d’acqua verdastra, mozziconi di sigarette e giornali
strappati. Aspettate! Quel tizio non c’era più! Si era già fermato il
treno? Non lo sapevo. Riguardai fuori per capire dove mi trovavo, se
avevamo già oltrepassato la prima fermata. Ma non riuscivo a
concentrarmi. Nascosi il viso fra le mani e iniziai a piangere. Avevo
paura. Tremenda paura, e non sapevo di cosa. Era qualcosa di estraneo.
Qualcosa molto potente che giocava con me. Ero un pupazzo nelle mani di
qualcuno. Finalmente il treno si fermò e le porte si aprirono. Era la
fermata dove era salito.. Come si chiamava? Louis. Mi catapultai
all’esterno. Mi misi a cercare nella mente un ricordo del suo viso, ma
non lo trovai. Mi venne di nuovo da piangere e poi mi assalì una rabbia
incontrollata. Gliela farò pagare per questo scherzo. Mi ha addirittura
rubato il cellulare. Mi ritrovai a scendere le scale e in fondo ad esse
tirai un calcio al secchio della spazzatura. Salì altre scale,
attraversai un ponte, riscesi. Era di qua? Qualcosa mi diceva di sì.
Sudavo. Iniziai a correre. Arrivai a casa sua in un lampo. Guardai i
nomi sul citofono, ma il suo non lo trovai. Riguardai, stavolta dal
basso verso l’alto. Niente di niente. Eppure era qui. Stavolta ne sono
certo. Nexist era il cognome. Ma si certo. Louis Nexist. Feci qualche
passo indietro per guardare la facciata del palazzo. Uno con la bici
quasi mi investì. Lo guardai andare via con il braccio sinistro a
mezz’aria e un dito alzato. Perché stavo in mezzo alla strada? Ma dove
ero? Alla mia destra la strada la conosco, porta alla stazione. Forse.
Non sapevo praticamente da dove ero venuto. Iniziai a correre come un
matto per scoprire subito se alla fine trovavo o no la stazione. Non la
trovai. La strada finiva contro un palazzo e continuava in una rigida
discesa verso sinistra. Il sole opaco, stanco stava salendo. Un ragazzo
con un cane mi veniva incontro e io andai incontro a lui. Mi guardò un
attimo per poi far finta di nulla.
- Scusa, ma per la stazione? Scusami, per favore.
Si decise a rispondermi.
- Ah, sì. Sempre dritto.
Mi indicò la discesa che feci quasi rotolando. Dovevo arrivare da
qualche parte, non sapevo dove ma dovevo arrivarci. Avevo bisogno di un
appiglio, un ricordo. Me ne venivano tanti in mente, ma neanche uno
utile, importante. Sapevo solo dove abitavo e chi erano i miei genitori,
che lavoro facevano. Ma ne ero poi certo? Non ero più sicuro di niente.
E se stavo diventando matto? Non riuscivo altrimenti a spiegarmi ciò
che era successo. Volevo il mio cellulare maledizione! Volevo chiamare
qualcuno. Alla stazione ci devono essere delle cabine telefoniche, ma
sì. Tirai fuori venti cents. E composi un numero, quello di mia madre.
Uno squillo, due squilli, tre, niente. Quarto squillo.
- Pronto!
Una voce maschile. E non era mio padre. Mi uscì solo un leggero gemito.
- Mat, se sei tu, stavolta sei morto.
Era finita. Ero andato; non mi sono mai scordato il numero di mia
madre, ma stavolta non era quello. Eppure ne ero così certo. Rimasi con
la cornetta in mano finché non decisi di riprendere il treno e andare a
casa ad arrendermi. Mi avvicinai ai tornelli dove c’era affisso un
grosso foglio con tanto di punto esclamativo. Diceva che da quella
stazione fino al capolinea, nella direzione opposta alla quale venivo,
la linea era chiusa, dal venerdì precedente. Non potevo andare a casa.
Ma allora come ci ero arrivato? Stavolta evitai anche di chiedermelo. Mi
sdraiai su una panchina. Il cielo sembrava cadermi addosso, tutto
grigio con chiazze qua e là più scure o più chiare. Un signore, sbucato
dal nulla, mi si fece vicino e mi chiese di farlo sedere. Mi rizzai e
senza neanche guardarlo mi girai verso la mia destra, dove c’era
un’altra panchina completamente vuota. Valli a capire certi tipi. Il
treno arrivò dal capolinea dove ero stato poco prima. Poco prima? Chiesi
l’ora al signore, quello si guardò il polso nudo e dichiarò che era
precisamente mezzogiorno e mezzo. Rimasi sconcertato; non aveva
l’orologio. Mi prendeva in giro? Decisi di lasciar stare e di salire per
prendere posto. Stranamente un po’ di gente era scesa, non eravamo
tutti morti. Mi misi appena a sedere che sentì squillare un cellulare.
Pensai che fosse di quel tipo, mi guardai in giro ma lui non c’era. Poi
iniziò a vibrarmi la coscia. Era il mio, lo avevo allora! Risposi ad un
numero sconosciuto.
- Pronto. Christine, Christine. Oh, ma certo. Certo che vengo, scusami il ritardo. Poi ti spiego. A dopo, un bacio.
Christine, ovvio. Come ho fatto a scordarlo? Dovevo andare da lei. Ecco
perché mi sono alzato presto. Ma non era vero, come sarei potuto
arrivare lì? E dov’è il tipo? Uscì dal vagone, guardai fuori e
ovviamente non c’era nessuno. Mi incamminai verso la testa del treno
guardando in ognuno dei vagoni. Su ogni sedile riposava un mio pensiero.
Non ci feci caso. Forse avevo solo bisogno di dormire. Avrei dormito da
lei. Avrei fatto anche una doccia, sicuro. Me la sarei scopata e tutto
sarebbe andato bene. Arrivai all’ultima stazione e presi l’auto per casa
sua. In me si fece enorme un dubbio, seguito dalla paura. Iniziai a
stringere la barra di metallo fino a farmi male. Scesi infine dopo una
troppo lunga attesa, a passi svelti mi diressi verso il primo angolo.
Svoltai. Poi sempre più veloce, dritto. Cinquanta, cento metri.
Duecento, il pub poi a destra. Il secondo portone, quello verde. Si, è
lui. Deve essere lui! Stavo per svenire dal panico. Guardai subito in
cima ai nomi e c’era. Il suo cognome. La cosa più bella che mi era
capitata. La cosa più bella sulla quale posai gli occhi quel giorno, il
suo cognome. Hope. Christine Hope.
Fine.
Zooant
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