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domenica 2 giugno 2013

Sezione Collabora: Christine Hope- parte uno.

Mi alzai presto quella mattina. Un po troppo presto per la verità. Erano appena le cinque di domenica e mi svegliai senza motivo. Non avevo sonno, forse perché la sera prima non avevo fatto niente come invece faccio di solito. Avevo semplicemente deciso di rimanere a casa. E ora ecco qua. Mi alzai dal letto e trovai sotto i piedi il freddo marmo del pavimento invece delle pantofole. Mi diressi in cucina e le trovai sotto il tavolo. Avevo un leggero languore che però passò presto non appena aprì il frigo. Era vuoto ed era ovvio. Andai infine al bagno, pisciai e poi iniziai a lavarmi con molta calma. Uscii che avevo freddo, così mi sbrigai a trovare dei vestiti e li indossai in fretta. Scesi da casa e mi accorsi dopo pochi passi che mi ero scordato le chiavi. Poco male. Avrei scavalcato dalla finestra, in qualche modo.Per strada non c’era nessuno; neanche una macchina, non un gatto o un cane. Mi incamminai verso il mare, stretto nel mio giubbotto con il vento che cercava di soffiarmi via l’anima. Stavo per attraversare una strada quando mi accorsi che non avevo guardato né a destra e né a sinistra. Mi fermai proprio in mezzo e guardai alla mia sinistra, dove in fondo finiva contro una rotonda. Passò finalmente una macchina che girò attorno all’ostacolo. Guardai a destra, e molto lontano alla fine della strada, si apriva un buco che era il cielo. Si stava lentamente illuminando.
Arrivai sulla battigia che il mare se la stava inghiottendo. Onde davvero incazzate ti urlavano contro sputandoti in faccia i suoi schizzi di saliva che ti invitavano a farti avanti. Il vento forte ululava dandoti scossoni ora a destra, ora a sinistra. Proveniva in realtà dritto da dove venivano le onde, ma te lo ritrovavi anche alle spalle. Era più sicuro mettersi a sedere. Guardai il cielo interamente grigio-blu defunto. La luce era come se provenisse da un altro pianeta e non dal sole, che era semplicemente una chiazza luminosa dietro un vetro opaco. Improvvisamente un tizio mi passò alle spalle correndo in un’orrenda tuta viola. Quindi c’era vita.
Appurato ciò, mi alzai per dirigermi alla stazione del treno. Anche lì non trovai nessuno. Mi sedetti sulla panchina a guardare gli alberi che quasi venivano sradicati e mi rollai una sigaretta, che poi finii sul treno. Tanto dentro non esisteva forma di vita. Faceva davvero freddo. Mi sbrigai a finire la sigaretta e chiusi il finestrino. La faccia ti pizzicava al vento che entrava così a forza; sembrava ti stesse portando via la faccia. Il sole, quella macchia, ti seguiva ,ti spiava da un’altra dimensione. Mi alzai e iniziai a passeggiare lungo il vagone. Pensieri si seguivano veloci, instancabili, scivolavano continuamente. Rimbalzavano contro i finestrini, si sedevano occupando tutti i posti. Li vedevo insistenti zompare sulle sedie, facendo addirittura rumore, e poi si aggrappavano agli appositi sostegni. Il treno si fermò di colpo per far entrare forse l’unica persona che lo aspettava. Indossava un giubbotto di pelle nera e sotto una felpa nera a righe orizzontali rosse. Non sapeva forse che ti fanno sembrare grasso? Sotto, dei jeans strettissimi, da donna molto probabilmente. Le scarpe, già grosse di loro, sembravano enormi rapportate ai pantaloni. Era Louis, che riconobbi però dal taglio dei capelli: rasati a zero con una minuscola cresta in mezzo. Non si può di certo però definire una cresta; diciamo che era semplicemente un filo di capelli. Mi vide subito.
- Alec! Che ci fai qui a quest’ora?
- Louis, vecchia canaglia! Sto andando da una tipa.
Mentii, ovviamente.
- E bravo. Chi è, la conosco?
- No, no. Una che ho conosciuto ieri sera al “Greate”.
Continuai a mentire.
- Io sto andando al lavoro, porca puttana!
- Cazzo, bel guaio.
- Non immagini. Gli operai hanno fatto un macello giù al supermercato e a me tocca pulire. Se no poi lunedì sarà un casino.
- L’importante è che ti pagano.
- Ovvio! Straordinario, che cazzo! Ma sai cos’ho?
- Una malattia?
- Ma fottiti. Una cosa senza la quale adesso non stavo qui a parlarti.
- Ecco. Ma te la porti appresso così! Non hai mai beccato i cani alla stazione?
- Non ho neanche dormito. Non immagini che seratone al “Dogdrome”
- Stai andando sotto a quella merda e tu lo sai.
- Cazzo dici! Guarda qua, non’è tagliata. Assicurato.
Tirò fuori una bag di speed e me la porse sotto il naso.
- Su dai, solo un flescetto. Manco te hai dormito, si vede. Guarda che faccia!
Si mise a ridere facendo quell’affermazione. Lo odiai in quel istante.
- Già, non ho dormito.
Mi ostinavo a mentire. Perché?
Il treno si fermò di nuovo e Louis nascose la bag fra le cosce, guardò fuori. Il treno ripartì e quindi iniziò a stendere la botta sul bordo del finestrino.
- Dai che non c’è nessuno.
Prese ad arrotolare una banconota da cinque e me la porse sullo sfondo di un sorriso. Presi la maledetta banconota e tirai su quella maledetta roba. Stetti per un attimo col naso per aria e il pippotto attaccato. Gli occhi presero a lacrimarmi. Louis mi seguì, il treno si fermò ancora e noi scendemmo.
- Mi stai accompagnando?
- Ma si! Minimo.
- E la tipa?
- Aspetta. Tanto, mica si drizza con sta roba.
Questo era vero.
- Vero. Hai visto che cazzo diventa? Io non riesco manco a pisciarci. Senti, andiamo a prenderci un caffè.
Entrammo nel bar e Louis andò dritto alla cassa e srotolò la banconota in faccia al cassiere. Al ché quello lo guardò storto. Io stavo aspettando al bancone dove il mio amico arrivò con due occhi così. Ordinò il caffè e il barista si diresse verso la macchina; io girai la testa verso l’entrata e vedere una giornata grigia.
- Questo pomeriggio che fai?
Louis non mi rispondeva. Mi rigirai verso di lui che non c’era più. Girai alle mie spalle e trovai solo una macchina da giuoco. Mi guardai intorno, ma niente.
- Che le prende signore?
Il barista ce l’aveva proprio con me.
- Ma ha visto il mio amico dove andato?
- Quale amico?
Eh?!
- Quello che le ha appena ordinato il caffè.
Non sapeva che rispondermi e io rimasi a bocca aperta.
- Stava qui, accanto a me!
- Non so che dirle, io non l’ho visto.
Che scherzo era mai questo? Non capivo. Forse si erano messi d’accordo per prendermi in giro, Louis ne era capace. Uscii fuori e mi guardai attorno. Non c’era proprio nessuno e proprio non capivo. Mi guardai alle spalle e all’interno sembrava non ci fosse più neanche il barista. Presi il cellulare per cercare il suo numero nella rubrica. Il suo numero. Ma come si chiamava? Oh cazzo! Louis! Louis, Louis. L, L. Niente. Non avevo il suo numero di telefono. Eppure lo avevo chiamato tante di quelle volte. O forse no? Improvvisamente non ricordavo.
Incominciai a camminare senza meta. Cosa era successo? Volevo mettere insieme dei pensieri ma proprio non riuscivo. Stavamo sul treno, ok. Siamo scesi e siamo entrati al bar. Tornai al bar, che con mia grande sorpresa trovai chiuso. Cosa cazzo stava succedendo? Qualcosa, forse paura, si faceva avanti dentro di me. Era come se non sapessi chi ero, dove stavo. Continuai a fissare la serranda abbassata che doveva essere un’allucinazione. Cercai quasi di aprirla con qualche forza misteriosa. Avevo davanti a me l’immagine del bar aperto con tanta gente dentro; immagini passate. Presi una decisione: dovevo andare al lavoro da Louis.
Seconda parte
                                                                                                                                                                                  Zooant
                                                                     

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